Contro le politiche di Cassa Forense. Per l'equità previdenziale e assistenziale.

Contro le politiche di Cassa Forense. Per l'equità previdenziale e assistenziale.

Lanciata
24 marzo 2024
Firme: 1.916Prossimo obiettivo: 2.500
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Perché questa petizione è importante

Lanciata da Cosimo D. Matteucci

SIT IN DEL 19/04/2024

LE RAGIONI DELLA PROTESTA E LE PROPOSTE PER L’EQUITA’D EL SISTEMA PREVIDENZIALE E ASSISTENZIALE FORENSE

(il documento è aggiornato al 20/03 ed è integrabile e modificabile fino alla conclusione delle assemblee regionali)


LA CRISI REDDITUALE NON RIGUARDA TUTTA LA CATEGORIA MA SOLO LE SUE FASCE PIU’ DEBOLI.

Per comprendere le ragioni della protesta contro l’iniquità dell’attuale sistema previdenziale forense e della riforma licenziata da Cassa Forense è necessaria una premessa che delinei il contesto economico e reddituale in cui la questione previdenziale si inserisce.

I dati e le statistiche fondamentali per questa analisi sono riportati da ultimo nel Rapporto Cassa Forense - Censis sull’Avvocatura 2023 e nella riviste “I Numeri dell’Avvocatura” e  “La Previdenza Forense” edite da Cassa forense.

In particolare e in sintesi:

nel 2022 gli iscritti e le iscritte a Cassa Forense risultavano 240.019. La maggior parte di costoro è rappresentata da avvocate e avvocati attive/i (225.513) mentre solo una parte più residuale è costituita da pensionate/i contribuenti  (14.506);
la distribuzione per generi evidenzia una leggera prevalenza maschile su quella femminile: in valore assoluto, gli iscritti a Cassa Forense nell’ultimo anno sono 126.000 uomini e 113.000 donne;
per quanto riguarda le donne, pur a fronte di un aumento dei loro redditi, permane invariato il gender pay gap: le avvocate, pur costituendo quasi la metà della categoria, guadagnano circa la metà dei loro colleghi uomini; a ciò si aggiunga che la maggior percentuale fra le cancellazioni dall’albo si registra proprio fra le donne;
vi sono state 8.257 nuove iscrizioni a fronte delle 8.698 cancellazioni, determinando un saldo negativo di 441 avvocate/i;
si assiste ad un “invecchiamento” generalizzato della professione che coinvolge tutti gli avvocati e le avvocate iscritti/e alla Cassa Forense a prescindere dal genere: l’età media di un avvocato/a in Italia passa da 42,3 nel 2002 a 47,7 nel 2022.
E veniamo ai redditi.

Anche l’Avvocatura ha colto i frutti del “rimbalzo” che ha portato a un incremento del Pil nazionale del 7%, dopo la grave frenata dell’economia dovuta all’anno della pandemia (cfr. Rapporto sull’Avvocatura 2023, pag. 23)

In  particolare il  reddito complessivo ai fini Irpef e il reddito annuo medio della categoria hanno registrato una crescita a due cifre rispetto al 2020: rispettivamente +10,7% e +12,2%. Quest’ultimo, il reddito medio annuo ai fini Irpef, risulta pari a € 42.386.

Restano però le differenze reddituali che emergono nella loro gravità quando si analizzano i dati relativi alle classi di reddito, riportati nella tabella che segue: 

Evidenziamo che nell’anno 2021:

16.859 avvocate/i, pari al 7,6 %, hanno dichiarato un reddito superiore a €105.000,00,
109.102 avvocate/i, pari al 48,9%, hanno dichiarato un reddito inferiore a €19.267,00;
 

Molto interessante anche il grafico che segue, pubblicato a pag. 26 de “I numeri dell’Avvocatura 2021” edito da Cassa Forense, dal quale emergono le classi di reddito della fascia superiore a €105.000,00, che è invece l’ultima considerata in quello precedente.

E’ un grafico interessante poiché, delineando la cosiddetta piramide dei redditi rovesciata, con molti che hanno poco e pochi che hanno molto e moltissimo, certifica un primo, importante dato e cioè che la crisi della categoria non riguarda tutti e tutte ma solo le sue fasce deboli; con una aggravante: gli stessi dati combinati con le condizioni economiche  generali, i costi di esercizio della professione, la riduzione del contenzioso, l’inefficienza del sistema giudiziario e gli altri elementi negativi di cui sopra non consentono di poter sperare in miglioramenti reddituali almeno nel breve periodo, il tutto mentre altre nubi si stagliano all’orizzonte, la più cupa delle quali è l’intelligenza artificiale che certamente rappresenta un serissimo fattore critico per il futuro professionale della categoria. 

La conferma di ciò si rinviene nella stessa indagine del Rapporto sull’Avvocatura 2023, laddove si è registrato un diffuso livello di insoddisfazione per la professione. In particolare, un avvocato su tre, circa il 34%, ha dichiarato di aver considerato l’idea di abbandonare la professione ritenendo critica la propria situazione occupazionale. Alla base di questa affermazione vi è soprattutto la consapevolezza di un’attività che comporta costi eccessivi e a cui non corrisponde il giusto ritorno economico (62,3%).

In questo contesto economico si inserisce la questione previdenziale.

 


2. L'ATTUALE SISTEMA PREVIDENZIALE FORENSE. CENNI GENERALI. CONCETTI TECNICI E INSOSTENIBILITA’ DEI CONTRIBUTI MINIMI OBBLIGATORI PER LA FASCE DEBOLI DELLA CATEGORIA.


La previdenza è una materia estremamente tecnica, tra statistiche, andamenti demografici, reddituali e sviluppi attuariali dei dati. Ciò nonostante cercheremo di rendere fluido questo documento ma alcuni concetti vanno necessariamente chiariti. 

I primi riguardano il vigente sistema di finanziamento delle pensioni e i metodi di calcolo delle medesime.  

Innanzitutto la Cassa Forense, come tutti gli enti pensionistici obbligatori,  finanzia le pensioni con il sistema a ripartizione: ciò significa che le pensioni erogate sono finanziate con i contributi versati dai lavoratori attivi. 

Questo è il motivo per il quale in questo sistema è fondamentale sia l’andamento reddituale che l’andamento demografico della popolazione forense, e quindi l’equilibrio tra lavoratori e pensionati.

Ora, la nostra categoria sta subendo e subirà un cambiamento profondo sotto tutti i punti di vista, a cominciare da quello demografico. Infatti il rapporto tra gli iscritti attivi e i pensionati nel tempo è mutato e muterà ancora in negativo, con una serie di ricadute sugli equilibri previdenziali.

Per quanto invece riguarda la determinazione della pensione di vecchiaia, attualmente esistono due tipologie di pensione: la prima è quella  principale (in quanto rappresenta il 48% delle pensioni liquidate), che si raggiunge con 35 anni di contributi e 70 anni di età, adotta il metodo retributivo per il calcolo della pensione; la seconda è quella residuale (perché rappresenta attualmente solo il 6% delle pensioni liquidate), che si raggiunge con almeno 5 anni di contributi e 70 anni di età, adotta il metodo contributivo per il calcolo della pensione, che come noto è meno vantaggioso e per di più non prevede l’integrazione al trattamento minimo. 

In passato, il metodo di calcolo retributivo ha consentito la liquidazione di pensioni “generose”, come spesso vengono definite, ossia di pensioni sproporzionate, molto corpose,  rispetto alla contribuzione versata. Non approfondiremo ulteriormente la questione, ma tanto era fondamentale per evidenziare che nasceva proprio in questo modo  quello che negli anni a seguire sarà sempre uno dei più grossi problema della sostenibilità della Cassa. 

Questo debito, unitamente ai costi dell’erogazione delle pensioni e dei trattamenti assistenziali, costituiscono delle uscite che ai fini dell’equilibrio di bilancio e della sostenibilità del sistema devono essere necessariamente coperte dalle entrate. Queste entrate sono costituite soprattutto dai contributi previdenziali, con i contributi minimi obbligatori che nel 2023 sono stati pari a €4.072,69 di cui 3.185,00 di contributo soggettivo, 805,00 di contributo integrativo minimo e 82,69 di contributo per la maternità: una cifra davvero importante e oggettivamente insostenibile per le fasce più deboli della categoria.


3. LA RIFORMA DEL SISTEMA PREVIDENZIALE. 


La riforma del sistema previdenziale si è resa necessaria a causa delle risultanze del bilancio tecnico al 31/12/2020, che sulla base dell’andamento demografico e reddituale dell’Avvocatura, in peggioramento, rappresentavano un saldo totale negativo a partire dall’anno 2042, con il venir meno della sostenibilità finanziaria trentennale a cui la Cassa Forense è vincolata per legge. 

Viene così avviato il percorso riformatore, con l’istituzione di una commissione di studio che, ispirandosi alla Legge Dini, la Legge 335/95 di riforma del sistema pensionistico pubblico, ha elaborato la riforma approvata dal Comitato dei delegati il 28 ottobre 2022.

Punto nevralgico della riforma, come si è detto, è il progressivo passaggio dal sistema di calcolo retributivo al contributivo nel rispetto del principio del pro rata temporis.

Il sistema contributivo è, ovviamente, differente dal retributivo. Il retributivo, come abbiamo visto, è svincolato dalla contribuzione ed è commisurato ai  redditi dichiarati; il contributivo invece è svincolato dai redditi e lega l’importo delle pensioni all’importo dei contributi versati nel corso della vita lavorativa, applicando a questo cd.  montante contributivo un coefficiente di trasformazione.


Ora, abbiamo le informazioni necessarie per ben argomentare il nostro dissenso nei confronti della riforma, del sistema e delle politiche previdenziali di Cassa Forense; e vedremo, di qui a poco, che ancora una volta vengono addossati sulle fasce più deboli della categoria i costi maggiori della sua sostenibilità.

Innanzitutto è fondamentale precisare che il testo della riforma non è stato reso pubblico, così come non lo è stato il provvedimento di rigetto dei Ministeri vigilanti: si tratta di un primo vulnus grave di trasparenza e comunicazione.

Infatti i dati che abbiamo potuto esaminare sono solo quelli forniti da Cassa Forense nei propri comunicati stampa, e quelli che abbiamo estrapolato dai video e dagli eventi di presentazione della riforma medesima  https://www.cassaforense.it/notizie-in-evidenza/previdenza-forense-approvata-la-riforma-dal-2024-si-cambia/ oltre alle informazioni acquisite dalle testate giornalistiche più accreditate https://www.ilsole24ore.com/art/riforma-pensioni-avvocati-bloccata-dubbi-ministeri-AFXRhjD .

Ai fini del passaggio da un sistema di calcolo all’altro gli iscritti vengono divisi in tre platee diverse con riferimento alla data del 31/12/2023: come ricordato, infatti, la riforma, se fosse stata approvata, sarebbe entrata in vigore il giorno successivo, il 1/1/2024.

Il primo gruppo è costituito dalle avvocate e dagli avvocati che alla data del 31/12/2023 abbiano maturato un’anzianità di iscrizione di almeno 18 anni: a costoro si continuerebbe ad applicare l’attuale sistema retributivo.  

Qual è il peso economico che è stato previsto dalla riforma a carico di questa platea per garantire la sostenibilità finanziaria? Per questa platea la riforma prevede una riduzione del coefficiente di rendimento per il calcolo della pensione dall’attuale 1,40% a 1,30%: quindi, solo piccola riduzione dello 0,10%; ricordiamocelo e andiamo avanti.

Il secondo gruppo è costituito dalle avvocate e dagli avvocati che alla data del 31/12/2023 abbiano maturato una anzianità inferiore a 18 anni: a costoro si applicherebbe un sistema di calcolo “misto” per cui verrà loro applicato il sistema retributivo per gli anni antecedenti il 31/12/23 e il sistema contributivo per gli anni successivi.

Il terzo gruppo è costituito dalle avvocate e dagli avvocati iscritti all’albo e quindi alla Cassa Forense dopo il 31/12/2023: a costoro si applicherebbe integralmente il sistema di calcolo contributivo.

Ma come funzionerà il sistema di calcolo contributivo? Vediamolo insieme.

I contributi da versare alla Cassa saranno sempre gli stessi:

-   contributo soggettivo;

-   contributo di maternità;

-   contributo integrativo;

-   contributo integrativo minimo.

C’è poi il contributo modulare volontario, che essendo volontario non rileva ai nostri fini.

Il contributo di maternità è stabilito dalla Cassa Forense e nel 2023 è stato, come visto, di € 82,69.

Il contributo integrativo è del 4% in fattura, a carico dell’assistita o assistito,  e non subirà variazioni.

Il contributo integrativo minimo ha finalità solidaristica ed è destinato a finanziare i trattamenti assistenziali: per il 2023 è stato pari a €805,00.

Il contributo soggettivo è calcolato sulla base di due aliquote: una del 15%, con un contributo minimo obbligatorio pari nel 2023 a € 3.185,00 e l’altra del 3%.

La prima aliquota del 15% si applica ai redditi inferiori o alla parte di reddito inferiore a €115.650,00 (cd. tetto reddituale, che con la riforma aumenterebbe a €120.000 per il 2024 e 2025 e €130.000 dal 2026) ed è destinata a costituire il montante contributivo, quello su cui andrà a calcolarsi la pensione.

La seconda aliquota del 3% si applica solo alla parte di reddito eccedente quel tetto reddituale e ha finalità solidaristica.

Ne deriva, dunque, che:

per coloro che hanno dichiarato un reddito superiore a €115.650,00, l’importo del contributo minimo soggettivo corrisponderà alla somma di quanto dovuto sulla base delle due aliquote;
per coloro che hanno dichiarato un reddito inferiore a €115.650,00, l’importo del contributo minimo soggettivo sarà pari al 15% del reddito dichiarato, ovvero al contributo minimo obbligatorio di €3.185,00 qualora, data l’esiguità del reddito, dall’applicazione dell’aliquota risultasse un importo inferiore.
Con il versamento di questi contributi (contributo soggettivo, contributo integrativo, contributo di maternità e contributo minimo integrativo) si ottiene il riconoscimento di un anno di anzianità valida ai fini pensionistici, badiamo bene a questo passaggio.

Che succede con la riforma? 

La riforma prevede innanzitutto:

la riduzione del contributo integrativo minimo da €805,00 a €250,00;
la riduzione del contributo soggettivo minimo obbligatorio dagli attuali €3.185 a €2.200 euro. Questa riduzione lo rende certamente più sostenibile da parte delle fasce più deboli della categoria: ma il problema è che questa riduzione viene  finanziata con la riduzione di una delle prestazione più importanti, l’integrazione al minimo della pensione, che sarà fondamentale in un sistema contributivo in cui le pensioni saranno più basse, perché calcolate  in base ai contributi soggettivi versati.
L’integrazione al minimo della pensione è uno strumento di evoluzione civile e sociale fondamentale, uno strumento di solidarietà e di welfare finalizzato a sostenere gli avvocati e le avvocate settantenni che nella loro vita lavorativa non siano riuscit*i/e a maturare una pensione minima fissata nel 2023, nel sistema vigente, a €13.000,00. In questo caso, infatti, interviene la Cassa Forense versando la differenza fino al raggiungimento di quella cifra. Una integrazione importantissima, soprattutto perché destinata a persone, uomini e donne, colleghi e colleghe settantenni a cui vanno garantiti i necessari mezzi di sussistenza dopo una vita di lavoro e di sacrifici: sono le persone più fragili della nostra comunità forense, insieme agli avvocati portatori di disabilità, persone ultime di una piramide reddituale che vede all’apice avvocati ricchi e ricchissimi. 

 E Cassa Forense che fa? Invece di estrarre da questi ultimi le risorse economiche necessarie, invece di addossare in misura maggiore a costoro i costi della sostenibilità finanziaria, va a colpire proprio gli ultimi/e degli ultimi/e,  gli avvocati/e anziani/e più poveri/e, tagliando la loro pensione integrata al minimo di ben 4000 euro all’anno.

La pensione minima infatti passerà progressivamente in 5 anni dagli attuali circa €13.000 a € 9.000 euro, una cifra miserrima, addirittura inferiore a quella di € 12.838    prevista per  l’accesso al patrocinio a spese dello Stato, una nuova soglia di povertà a cui l’Avvocatura stessa, quella che addirittura vorrebbe ambire ad un riconoscimento costituzionale condannerebbe i propri pensionati e le proprie pensionate più deboli e fragili.

Ma c’è, purtroppo, di più:

perché è stato ridotto non solo l’importo dell’integrazione al minimo della pensione ma anche la platea dei possibili beneficiari/e, restringendola solo a coloro il cui reddito medio, sommato a quello del coniuge, nei tre anni precedenti la domanda non sia stato superiore al doppio del trattamento minimo stesso;
perché la riduzione dell’importo del trattamento minimo avrà l’ulteriore conseguenza di ridurre anche la gran parte delle pensioni di inabilità e invalidità,   a cui sono parametrate; 
in merito poi alle pensioni di inabilità e invalidità è stata ulteriormente limitata la possibilità di accedervi, in quanto è stato aumentato da cinque a dieci anni il requisito di iscrizione e contribuzione per accedere a tali pensioni.
Queste disposizioni della riforma, per noi, valgono da sole un giudizio severo e  negativo su tutta la riforma, una riforma che addossa macigni ai più deboli e quasi nulla sugli altri, a cominciare dalla riduzione di appena lo 0,10 % del coefficiente di rendimento delle pensioni retributive.

Su chi grava, quindi, il peso della riforma previdenziale? Si inizia a intravedere?

Andiamo avanti e analizziamo la posizione delle giovani avvocate e dei giovani avvocati: sono vere agevolazioni quelle per loro previste dalla riforma? Rispondiamo anche in questo caso con i dati.

Per i primi quattro anni di iscrizione la riforma prevederebbe l’esonero totale dal pagamento del contributo minimo obbligatorio di €2.200,00. Per questo primo periodo, quindi, il contributo soggettivo sarà determinato dalla sola applicazione dell’aliquota del 15 % sul reddito (destinata ad aumentare al 16 % per il 2024/25 e al 17 % dal 2026). Dal quinto all’ottavo anno di iscrizione scatterebbe l’obbligo di pagare il contributo minimo obbligatorio nella misura del 50%, quindi €2.200,00/ 2 = €1.100,00.

Dal nono anno cesserebbero queste agevolazioni: ma possono realmente considerarsi tali? A nostro giudizio no. Quelle innanzi descritte sarebbero state agevolazioni solo se vi fosse stato il riconoscimento dell’anno contributivo. Ma così non è, e infatti:

se per i primi quattro anni non vengono versati contributi in misura pari al  contributo minimo obbligatorio non verrà riconosciuta alcuna annualità a fini pensionistici;
dal quinto all’ottavo anno, quando scatta l’obbligo di pagare il contributo minimo obbligatorio al 50%, salvo pagamento della parte residuale, non verrà riconosciuta l’annualità valida ai fini pensionistici ma solo la metà, e cioè sei mesi: metà contributo, metà annualità.
Nessuna agevolazione quindi: la riforma non riconosce nulla senza pagamento integrale dei contributi minimi. L’unica previsione vantaggiosa è che  al montante contributivo delle nuove iscrizioni possa essere aggiunto un punto percentuale di quanto versato a titolo di contributo integrativo.

Riprendiamo adesso le pensioni retributive “generose” di cui abbiamo parlato sopra, ed esaminiamo in particolare quelle di vecchiaia, i cui beneficiari/e sono tra i più privilegiati/e in assoluto: perché? Perché oltre a beneficiare di quelle “generose” pensioni:

possono continuare ad esercitare la professione; l’iscrizione all’albo è infatti incompatibile solo con la pensione di anzianità;
a differenza degli altri avvocati e delle altre avvocate sono esonerati/e dal pagamento del contributi minimi obbligatori e versano pure una contribuzione ridotta alla metà, non del 15% ma del 7,5 %, 
La riforma per questi pensionati/e cosa prevede? La riforma di Cassa Forense, mentre abbatte del 31% la pensione integrata al minimo, e di conseguenza quelle di inabilità e invalidità, mentre ne restringe la platea dei beneficiari/e, mentre aumenta le aliquote dei contributi portandoli dal 15 al 17%, non fa altrettanto con loro e infatti la loro aliquota viene aumentata solo di 2,5 punti portandola dal 7,5 al 10%.

Su chi grava il peso finanziario della riforma? Si notano, adesso, le differenze?

Non solo, per aumentare ancora il loro privilegio, si prevede che il 50 % della loro contribuzione vada anche ad aumentare le loro pensioni con il meccanismo dei supplementi triennali.

Questa è la riforma della previdenza forense, una riforma che ancora una volta scarica sulle fasce più deboli i pesi della sostenibilità finanziaria e che pertanto ci vede in radicale dissenso.


4. LE PROPOSTE PER UNA RIFORMA PREVIDENZIALE GIUSTA ED EQUA

Il sit in del 19/04 trova le sue motivazioni in questo documento di rivendicazione politica e sindacale. 

Noi tutte e tutti chiediamo a Cassa Forense la rimodulazione della riforma sulla base di un reale principio di equità con estrazione dalle classi di reddito più affluenti delle risorse economiche necessarie per la sostenibilità, per finanziare correttivi solidaristici al sistema contributivo puro e in generale per la sostenibilità delle misure previdenziali e assistenziali.

Per questi motivi abbiamo ritenuto opportuno agire sul processo riformatore in corso, cogliendo l’occasione del rigetto della riforma da parte dei Ministeri vigilanti per chiedere alla Cassa Forense modifiche essenziali. 

Perciò il sit-in è rivolto a Cassa Forense e non ad altre istituzioni; nei confronti di queste ultime saranno valutate altre azioni, soprattutto per il riconoscimento della figura dell’avvocato dipendente e per la riforma degli ammortizzatori sociali di cui si parlerà in successivo paragrafo. 

Di seguito, dunque, le nostre proposte per la riforma del sistema previdenziale forense:   

conferma della riduzione dei contributi minimi obbligatori soggettivi a €2.200,00;
eliminazione del contributo integrativo minimo;
aumento dell’integrazione al minimo della pensione a € 15.000 annui, che comporterebbe un corrispondente aumento delle pensioni di invalidità e inabilità;
adozione per tutte e tutti del sistema contributivo dall’entrata in vigore della riforma, esattamente come accaduto  la riforma delle pensioni Fornero, considerando che non vi sarebbe alcuna lesione dei diritti quesiti, concetto che spesso viene strumentalmente utilizzato dai detrattori di riforme in peius  per i più abbienti ;
rendere il contributo di maternità proporzionale al reddito prevedendo una aliquota contributiva sul reddito, come nel sistema INPS, ove a tale scopo è stabilito un contributo dello 0,72%. Ciò avrebbe l’effetto di rendere non solo più equo il contributo stesso ma di aumentare le risorse e di permettere di sostenere maggiormente le avvocate. 
individuare altri scaglioni di reddito oltre il tetto reddituale da cui estrarre - con aliquote progressive in base all’aumentare del reddito -  risorse con cui finanziare l’assistenza, l’integrazione al minimo delle pensioni e gli altri correttivi solidaristici proposti;   
conferma della riduzione del contributo minimo obbligatorio nella misura del 50% con riconoscimento dell’intera annualità contributiva;
applicazione, ai  pensionati/e di vecchiaia che continuano ad esercitare, lo stesso regime contributivo degli/lle altri/e avvocati/e, ma con riduzione della metà del solo contributo soggettivo minimo, in modo tale da non aggravare la situazione dei/lle pensionati/e attivi/e con redditi che non superano i minimi e che in parte rilevante hanno  pensioni contributive. 

Su queste proposte, e su quelle che seguono al paragrafo 5, chiediamo a Cassa Forense di aprire un tavolo di confronto che preveda anche la sua valutazione tecnica ai fini di un nuovo e giusto equilibrio tra generazioni e classi di reddito. 

Si chiede inoltre a Cassa Forense di sostenere presso i competenti organi di politica nazionale l’adozione di un sistema di welfare universalistico così come descritto al successivo paragrafo 6.   In particolare, si chiede che Cassa Forense istituisca un tavolo di confronto e studio, aperto alle rappresentanze sindacali reali dell’avvocatura (e non solo alle associazioni maggiormente rappresentative, evidentemente non interessate al disagio dell’avvocatura a reddito basso e medio basso) e che coinvolga soggetti istituzionali delle politiche attive del welfare; all’esito del quale l’ente previdenziale si faccia latore presso gli organi competenti della politica nazionale della richiesta di una riforma universalistica degli ammortizzatori sociali che coinvolga anche i lavoratori e le lavoratrici autonome.

 

 

 


5. ALTRE CRITICITA’ DEL SISTEMA

Il Regolamento per l’assistenza in vigore dal 1 gennaio 2024 ha subordinato l’erogazione di tutte le prestazioni assistenziali alla regolarità contributiva: si arriva fino al punto da negare l’assistenza per maternità o per gravi eventi morbosi proprio a coloro che si trovano in maggiore difficoltà; si chiede quindi che tali prestazioni siano subordinate solo al regolare invio del modello 5;
Assolutamente inaccettabile è il sistema di erogazione della indennità assistenziale per malattia. L’art 6 del Regolamento Assistenza prevede che, per ottenerla, sia necessario dimostrare di essere stat* totalmente inabile all’attività professionale per almeno 60 giorni. E’ di ogni evidenza come si possa essere beneficiari/e di tale trattamento solo in ipotesi assolutamente residuali di malattia gravissima che obliteri ogni capacità intellettiva dell’assistito/a; e come restino fuori invece da tale forma di assistenza ipotesi parimenti gravi, come la malattia oncologica e le cure debilitanti che ne susseguono, ovvero la malattia di tipo psichiatrico (in essa comprese le varie forme di stati depressivi acuti). E’ necessario che l’assistenza per malattia prevede termini più brevi di inabilità e copra i periodi in cui l’assistita/o è sottoposta/o a terapie debilitanti comprovate, ovvero sia affetta/o da stati depressivi acuti o altre patologie di tipo psichiatrico che rendano grandemente difficoltoso lo svolgimento della attività;
E’ inaccettabile che il contributo per maternità sia fissato in misura unica per tutte/i, a prescindere dal reddito dichiarato, visto che invece l’indennità di maternità è parametrata sul reddito medio antecedente al parto. In altri termini: gli avvocati e le avvocate più ricche pagano di contributo di maternità la stessa cifra di coloro che abbiano  reddito bassissimo. Tutti e tutte però percepiscono una indennità di maternità parametrata al reddito: il che significa che i ricchi e le ricche percepiscono una indennità molto alta, ma pagata dai più poveri e dalla più povere. E’ invece necessario che la misura dovuta per contributo di maternità sia stabilita in misura quantomeno proporzionale al reddito dichiarato; ciò al fine di evitare che il costo della maternità o paternità altrui ricada in misura di fatto maggiore sugli avvocati e le avvocate a reddito più basso.
Le istanze di compensazione ovvero di rimborso per pagamenti non dovuti vengono gestite in tempi estremamente lunghi; e quindi le somme dovute da Cassa agli iscritti e alle iscritte vengano di fatto rimborsate molto tempo dopo aver avanzato regolare relativa richiesta; si chiede quindi di fissare un termine per l’espletamento integrale delle pratiche di rimborso e compensazioni, che potrebbe essere fissato in giorni 60 a far data dalla domanda;
Anche il sistema delle sanzioni applicate agli iscritti e alle iscritte in caso di mancati o ritardati pagamenti dei contributi previdenziali risponde ad una logica in cui è assente ogni connotato solidaristico. Le sanzioni vengono calcolate allo stato in modo orizzontale: sono uguali per tutti e tutte, a prescindere sia dal reddito dichiarato che dall’entità del pagamento ritardato o omesso. E’ di ogni evidenza l’effetto regressivo di una simile previsione, dal momento che una sanzione identica grava in maniera enormemente maggiore sui redditi bassi, e poco o niente su quelli alti o altissimi. La realizzazione di un sistema realmente solidaristico impone invece di graduare le sanzioni in modo progressivo rispetto ai redditi dichiarati. 
6. LA NECESSITA’ DI UN SISTEMA UNIVERSALISTICO DI WELFARE CHE COMPRENDA ANCHE IL LAVORO AUTONOMO

La povertà, nel secolo della epocale crisi economica che attraversiamo fin dal 2008, aggravata da pandemia prima e guerre poi, non colpisce solo i disoccupati o gli inoccupati, ma anche, ed ampiamente, la classe lavoratrice, con perdita del lavoro o con vertiginosi cali dei redditi. 

Per quanto riguarda specificamente il settore del lavoro autonomo e professionale, che evidentemente per sua struttura non è colpito dalla piaga dei licenziamenti, la crisi si sostanzia  in una vertiginosa diminuzione degli introiti, a fronte di spese connesse all’esercizio della professione aumentate a cagione dell’inflazione, e a fronte di medesimo aumento del costo della vita. 

Non sono esclusi da questa drammatica situazione i lavoratori e le lavoratrici iscritti/e agli ordini professionali e quindi alle casse private di previdenza: in particolare quei lavoratori/trici privi/e di risparmi di sostegni familiari con cui fronteggiare  calo di reddito.

Per i lavoratori/trici che si trovano in tali contingenze non esistono, allo stato, ammortizzatori sociali: laddove non intervenga qualche forma di welfare familiare, si tratta di categorie destinate appunto ad entrare senza mezzi termini nel vortice della povertà come disegnata dal rapporto Caritas 2023. Le casse di previdenza private non apprestano alcuna provvidenza per casi del genere, in ossequio ad una concezione ormai anacronistica del lavoratore/trice autonomo/a professionale come soggetto autosufficiente, affluente per definizione.

Nel disastro della contemporaneità, con serie prospettive di peggioramento sociale ed economico, una riforma degli ammortizzatori sociali è ineludibile, e può essere utile ed efficace solo se finanziata con la redistribuzione della ricchezza ottenuta con contribuzioni ed imposte progressive che gravino maggiormente in percentuale sui redditi alti. 

La pandemia infatti ha velocizzato un blocco che sembra definitivo dell’ascensore sociale, e un precipitare ulteriore delle condizioni reddituali e in genere economiche delle fasce deboli della professione a fronte di un incremento dei grandi patrimoni e redditi. Il rapporto CENSIS  2023 commissionato da Cassa Forense dice solo in parte la verità, o meglio, dietro l’ostensione di un aumento medio dei redditi, cela la realtà che è fatta di aumento dei redditi alti a fronte della diminuzione o semplice invarianza dei redditi più bassi (su cui grava in maniera esponenziale lo schizzare in alto dell’inflazione).

Durante la precedente legislatura, il Ministero del Lavoro - all’epoca presieduto dalla ministra Catalfo - diede vita ad una commissione ministeriale incaricata - all’esito della pandemia da Covid 19 - di verificare l’utilità e la possibilità di una riforma degli ammortizzatori sociali che consolidi un sistema di protezione universale in grado di garantire a tutti i cittadini un reddito adeguato a prescindere dalla condizione occupazionale: anche, dunque, per i lavoratori e le lavoratrici autonome. Il potenziamento e la razionalizzazione del sistema delle politiche attive è divenuto infatti, alla luce della grave congiuntura economica mondiale, un passaggio fondamentale: anche per il lavoro a partita IVA, per il quale la Commissione Catalfo (presieduta dal prof. Marco Barbieri, docente ordinario di diritto del lavoro presso la facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Bari) concluse che fosse necessario  prevedere strumenti di integrazione al reddito in costanza  di lavoro commisurati al calo (involontario, s’intende) del reddito professionale.

In particolare, l’articolato documento licenziato dalla Commissione, per i lavoratori e le lavoratrici autonome, de jure condendo prevede (nell’ambito di una riforma complessiva del welfare secondo i principi dell’universalismo differenziato):

“Per i puri lavoratori autonomi di cui si è detto, si può immaginare di inserire una nuova forma di tutela rispetto alle oscillazioni che si verificano non tanto nella capacità delle persone di competere sul mercato, quanto nella costanza del flusso reddituale. La prestazione per sospensione o riduzione dell'attività per il lavoro autonomo dovrebbe (...) essere dipendente dalla caduta del fatturato. (...)  Naturalmente, occorre fissare un tetto di reddito per evitare che la persona abbiente o anche molto abbiente (figura presente specie tra i professionisti) possa usufruire di una prestazione di cui sostanzialmente non ha alcun bisogno (...). Il tetto massimo di reddito complessivo (non solo di quello professionale) dei beneficiari potrebbe essere fissato in via sperimentale (trattandosi di misura sostanzialmente nuova, sarebbe prudente affidare una delega legislativa al Governo per rivedere soglie e condizioni), non dovrebbe superare i 35.000 euro, e andrebbe accompagnato da un tetto ISEE per evitare che il/la componente di un nucleo familiare molto abbiente o che magari abbia una propria importante consistenza patrimoniale possa usufruirne. La riduzione del fatturato oltre un terzo rispetto però non al corrispondente trimestre dell’anno precedente ma alla media dei tre anni precedenti potrebbe essere una plausibile condizione sia di accesso alla prestazione sia di quantificazione della prestazione da erogare (ovviamente andrebbero escluse le persone che abbiano subito una riduzione dell’attività per effetto di provvedimenti disciplinari sospensivi dell’Ordine professionale di appartenenza).  (...) appare più equo socialmente e più corrispondente al sistema che la prestazione garantita sia in percentuale (per esempio, il 50%) rispetto alla riduzione del fatturato, incoraggiando così l’adempimento negli anni dei doveri fiscali, ma con un minimo di reddito garantito onde incoraggiare la permanenza attiva sul mercato del lavoro di questi soggetti. La durata massima ipotizzabile della prestazione potrebbe essere di dodici mesi (oppure di diciotto mesi (...). Residua il problema dei neolavoratori autonomi, per i quali la riduzione del fatturato rispetto al triennio precedente non sarebbe applicabile. Si esce qui, quindi, dal campo degli ammortizzatori sociali. Tuttavia, l’equità del sistema potrebbe risultare vulnerata se a questo segmento del mercato del lavoro non fosse fornita alcuna tutela. Si potrebbe, almeno per i neoprofessionisti delle Casse che debbono superare un esame per iscriversi (diverso è chi intraprenda un’attività di lavoro autonomo senza una barriera all’ingresso, per il quale si rischierebbe di incentivare pseudoattività volte solo alla costituzione del diritto alla percezione di questa prestazione) (...) assumere il reddito di cittadinanza come parametro del reddito garantito al quale portare i neoprofessionisti per i primi tre anni, dopo i quali entrerebbe in vigore il meccanismo ordinario, oppure – e sarebbe l’opzione preferibile e più semplice - prevedere un esonero contributivo ex lege per i medesimi primi tre anni, che sostituisca le varie riduzioni contributive riconosciute dalle diverse Casse.”

Il rimpasto di governo che provocò la sostituzione della ministra Catalfo interruppe bruscamente il cammino della riforma del welfare che la Commissione aveva elaborato. 

E’ rimasto invariato tuttavia il problema: gli avvocati e le avvocate a basso reddito e privi/e di welfare e sostegno familiare, così come tutti/e i lavoratori e le lavoratrici autonome, hanno diritto ad una esistenza dignitosa e ad essere sostenuti/e in caso di improvviso calo dei già esigui redditi, non avendo a disposizione nè stipendio fisso nè ammortizzatori in caso di perdita del lavoro. Un massa enorme di cittadini e cittadine che possono contare solo su se stessi/e può essere sostenibile - al limite - in presenza di una economia sana. In tempi di inflazione galoppante e di impoverimento generale essa rischia invece di rivelarsi, nel medio periodo, una bomba sociale pronta ad esplodere.

Una riforma del welfare del genere - che avrebbe tratti innovativi epocali - ovviamente va ben oltre le competenze e i poteri di Cassa Forense. Tuttavia riteniamo che il nostro ente previdenziale, che ben è a conoscenza della situazione drammatica in cui versa una larga parte della categoria, abbia a disposizione peso politico, forza contrattuale e competenze tali da potere e dovere aprire un dialogo con il nostro movimento su questi temi, al fine di  studiarli e sostenerli presso la politica nazionale.

 


Roma, 19 aprile 2024

 

La versione integrale e aggiornata è qui.

 

https://docs.google.com/document/d/1XtsJvnHRx6g0tfAhStpheWF2vDL5Q87cbWpRImg2iJI/edit?fbclid=IwAR1jfEVqOPoJ6uXTHfjaFt22RCa83hxoRdLRL_AjoiKOYTPwos3JJuBHp9U

 


   

 

 

 

 

 

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